Tra i romanzi più importanti della letteratura europea del Novecento, ad opera di Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli” è un diario postumo sui due anni che l’autore trascorse in confino in Lucania tra il 1935 e il 1936. Nel marzo 1934 Levi venne arrestato per sospetta attività antifascista. L’anno successivo fu condannato all’esilio a Grassano, “un paese bianco in cima a un colle desolato”. E poi ad Aliano (da lui e dai locali chiamato Gagliano), che nel 1935 non era altro che una manciata di case isolate, affacciate sui calanchi.
Prima di iniziare il racconto vero e proprio, scritto tra il 1943 e il ‘44 e pubblicato da Einaudi nel 1945, Levi spiega al lettore il motivo per cui ha scelto di chiamare così il suo libro: “Cristo di è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania”.
Medico e pittore torinese, nato e cresciuto in un’agiata famiglia ebraica e attivo partecipante alla vita culturale e politica di quegli anni, quando raggiunge il Sud Italia fu costretto, almeno i primi tempi, a fare i conti con la noia. Ma pian piano inizia ad avvicinarsi a quel popolo a cui manca tutto, conquistandone la fiducia curando alcuni di loro dalla malaria. Levi si affeziona a quei luoghi dimenticati da Dio – e anche qui il titolo torna a sottolineare le condizioni di totale indigenza e la fine della civiltà (e della ferrovia, che si interrompeva bruscamente lungo la costa salernitana) – parlandone sempre con tono affettuoso e nostalgico.
Procedendo nella lettura, prende forma l’analisi che Levi fa del meridione, dall’arretratezza al brigantaggio, naturalmente reinterpretata alla luce della vicenda che l’autore ha vissuto in prima persona, ma non per questo meno puntuale. Un’analisi ricca di particolari nella quale fanno capolino stati d’animo e riflessioni personali dell’autore che arricchiscono di umanità e tolleranza un racconto stilisticamente assai vivido ancora oggi.