Il dopoguerra ha determinato grandi trasformazioni che, in molti casi, si sono tradotte nello sviluppo urbanistico e architettonico delle città. Questo è accaduto anche a Potenza, con risultati che raramente vengono associati al concetto canonico di bellezza. Nel tentativo di appropriarsi del suo ruolo di capoluogo, l’abitato ha definito la sua immagine duale di città moderna immersa nella natura boscosa, costruendo un’intricata schiera di edifici vertiginosi in cui è facile perdersi.
Questo itinerario conduce alla scoperta di alcune architetture emblematiche della fine degli anni ’60, in un viaggio insolito alla scoperta di un altro volto della città.
Il ponte sul Basento (1969-71), realizzato da Sergio Musmeci, è di certo l’architettura più iconica della città, che non è solo un’infrastruttura di passaggio, ma oggetto plastico vivente: una sorta di creatura preistorica da esplorare e percorrere, visto che la sua “pancia” può essere attraversata a piedi. Costituito da un’unica membrana di cemento è delimitato da archi, che donano al ponte un aspetto stranamente sinuoso, location spesso utilizzata per spettacoli di teatro e danza contemporanea.
Non lontano dal ponte è possibile imbattersi nell’enorme, quasi smisurato, Palazzo di Giustizia, la cui costruzione è iniziata nel 1972. Questa città all’interno della città ha una forma esterna interessante, costituita da sbalzi e sporgenze che ne alleggeriscono, per quanto possibile, il volume grigio e massiccio. Di certo non lascia indifferenti questo mastodontico fabbricato, che sembra costruito per incutere timore.
L’esempio più discusso e criticato dello sviluppo urbanistico del capoluogo è senza dubbio il quartiere di edilizia economica e popolare noto come il “Serpentone”. Questo popoloso insediamento, vero e proprio alveare urbanistico, ha sollevato forti polemiche sia per la sua mole che per la sua forma, sviluppata lungo il crinale della collina. Appare infatti come un’imponente barriera curvilinea che domina due valli.
Questo viaggio nell’insolito termina nella periferia nord, dove si staglia l’affascinante edificio, ormai in disuso, dell’ex ospedale ortofrenico di Marcello D’Olivo (1969-71). La sua collocazione, distaccata dalla città, non è casuale: realizzato in cemento armato è simbolo di separazione e di mancata integrazione, che volge lo sguardo alla collina per tentare di attenuare le pene e i dolori dei pazienti. Molto curiosa è la pianta dell’edificio sviluppata su due enormi “V”, che conferiscono alla struttura un singolare rigore geometrico.
Un’immersione nei capolavori dell’architettura moderna, che appagherà i più curiosi portandoli al di fuori delle traiettorie turistiche consuete.