“Il dolore è il finito anelante l’infinito” scriveva Nicola Sole. Nelle sue opere la malinconia era pervasiva almeno quanto la sua passione politica. Patriota italiano, fu immerso nelle vicende rivoluzionarie più di quanto, probabilmente, molti suoi contemporanei compresero.
Nacque a Senise, in provincia di Potenza, il 31 marzo 1821. La passione per la poesia fu bruciante fin dalla tenera età, tanto che si racconta che già a cinque anni ripetesse a memoria i canti di Torquato Tasso e Ludovico Ariosto. Da adolescente, come un moderno menestrello, improvvisava rime per i suoi compagni.
Nonostante questo, gli fu imposta la professione medica a Napoli. Ma il fervore culturale della città in quegli anni era troppo intenso perché non fosse, ancora una volta, la letteratura a prendere il sopravvento. Con insistenza, riuscì ad abbandonare la professione di medico e si laureò in legge, diventando un buon avvocato. La sua abilità forense era legata, però, soprattutto alla sua notevole capacità linguistica. Nel 1842 gli fu commissionato un primo lavoro da Nicola Castagna per le ottave introduttive de “Il Menestrello”.
Da questo momento in poi, la scrittura gli divenne ancora più necessaria e il giovane poeta si dilettò nella composizione di sonetti e poemetti a sfondo religioso e politico.
Nel 1845, trasferitosi a Potenza per esercitare l’attività di avvocato, s’inserì in tutti i maggiori circoli liberali cittadini.
Nel 1848, sulla scia degli eventi che sconvolsero il Meridione, Nicola Sole pubblicò “L’Arpa Lucana”, una delle sue produzioni più apprezzate, seguita dall’ode “Sulla tomba di Alessandro Poerio”. Ma le sue implicazioni nei circoli antiborbonici non potevano passare inosservate.
Una mattina dell’inizio del 1849 Nicola Sole fuggì da Potenza, ricercato dalla polizia borbonica per cospirazione. Visse i successivi 3 anni dandosi alla macchia, con l’aiuto di amici e parenti. Ma non poteva durare a lungo. La latitanza lo stava provando molto duramente, nel corpo e nell’animo e, così, accettò di buon grado di costituirsi ottenendo, poi, l’amnistia.
La mancanza di coraggio mostrata in quest’occasione non piacque, però, ai suoi compagni patrioti, molti dei quali finirono col voltargli le spalle.
Solo e affranto, Nicola fece ritorno nella sua Senise, dove morì, forse di tubercolosi, nel 1859.