Lunghi mantelli scuri scivolano sul corpo. Cappelli di paglia sul capo ricordano che le nostre radici sono ben affondate nella terra. E poi i campanacci. Sono tanti, più di mille. Il loro frastuono invade il territorio, tanto che si potrebbe udirli anche in lontananza. Se ne vanno in giro per San Mauro Forte, borgo di 1 417 abitanti, in provincia di Matera, noto per la sua aromatica produzione di olio. Gli enormi “scasatori” – come vengono chiamati i campanacci più grandi – dal peso di almeno 10 chili e quelli più piccoli, vanno a perdersi nei vicoli stretti del paese oppure si rincorrono tra le vie come fossero entità soprannaturali di passaggio, quasi slegate dalle persone che, con fatica (ma con gioia), li portano appesi al collo. Possono essere stretti o larghi a significare la sessualità femminile o maschile. Tutto qui, del resto, è una rappresentazione: una metafora ilare e propiziatoria della vita. Una sorta di mito apotropaico che si rinnova quasi invariato da secoli e che allontana la sventura, la miseria, la malattia e la morte.
È la sagra del campanaccio: la festa più attesa dell’anno a San Mauro Forte. Dal 15 fino al 17 gennaio, giorno del culmine di questa manifestazione carnascialesca, i campanacci sciamano ovunque per il borgo: nelle piazze, intorno alle chiese, davanti alle case, fino all’alta torre normanna.
L’allegra follia collettiva sta iniziando e chiunque, anche se solo di passaggio, non può fare a meno di immettersi, gioioso, nel misterioso flusso. La cupezza dei colori e del suono assordante e ipnotico dei campanacci si mescola all’allegria del carnevale. Oggi, qui, tutto è permesso: le maschere che fino a questo momento potevamo solo sognare di indossare ora ci appartengono riconsegnandoci alla nostra vera e forse più intima e ferina natura. Donne e uomini si scambiano i ruoli o diventano alberi e animali. Non c’è limite al desiderio.
Intorno alla chiesa di Sant’Antonio Abate, il protettore degli animali, tre giri sanciscono l’inizio della festa. Sfilate spontanee sciamano ovunque. La musica degli organetti risuona vivace. Le porte delle case si aprono. L’aria è ebbra del vino offerto e dello sfrigolio delle fritture e della carne del maiale sacrificato, secondo un’antica usanza. Si condivide e si festeggia la vita, dimenticando piccole e grandi miserie quotidiane.
Poi tutto finisce. L’enorme ipnosi collettiva che assomiglia a una preghiera vitalistica si arresta di fronte al lamento funebre di un fantoccio bruciato in piazza: va in scena il funerale del carnevale.
Ma non c’è tristezza: perché tra un anno tutto ricomincerà.