Nell’alba fredda della domenica che precede il martedì grasso, nel Parco Nazionale dell’Appenino Lucano, una folla di alberi che cammina esce dal bosco. Sono i “Rumit”, gli eremiti: uomini e donne dal corpo totalmente ricoperto di foglie d’edera. Secondo la tradizione, sono le maschere degli asceti che, dopo il lungo inverno, tornano in paese alla ricerca di qualcosa da mangiare e incarnano lo spirito arboreo vivificato dal primo sole di febbraio. Secondo una versione più moderna, invece, sono i migranti che tornano a casa senza aver fatto fortuna.
In ogni caso, il legame e il profondo rispetto nei confronti della natura sono evidenti.
Il rumore delle foglie che gli eremiti sollevano al loro passaggio è intensissimo. I passi ravvivano nell’aria l’odore forte e familiare della terra umida.
Osservare i Rumit uscire dalla foresta dà luogo a una vertigine: è come vedere la foresta che straripa in direzione del borgo di Satriano.
Il paese, arroccato su un colle a 653 metri sul livello del mare, è la capitale lucana dei murales, dalla spiccata tendenza alla narrazione e al sogno.
Giunti nelle strade del paese, i Rumit si annunciano bussando alle porte con il “fruscìo”, un arbusto di pungitopo. È l’unico suono che emettono. Chi riceve la loro visita ne rispetta il silenzio e fa dono di qualcosa, in cambio di buoni auspici.
Quindi, irrompono altre maschere magiche e rituali: l’Urs (l’orso), la zita (la sposa) e la Quaresima. L’orso, appena uscito dal letargo, è vestito di lana e pelli di pecora ed è domato da un pastore. La lugubre Quaresima, invece, è vestita di nero. Il suo volto è bianco e spettrale. Sul capo, porta una culla con un neonato: è il figlio del carnevale appena trascorso. La zita, solare e innamorata, con il suo corteo nuziale bilancia il senso di terrore prodotto dalla Quaresima.
La sfilata procede, infine, per le strade e per le piazze, mentre si balla al suono della musica tradizionale inneggiando alla bellezza e alla forza di madre natura.