Nato il 22 Novembre del 1772 a Montalbano Jonico (Matera), nel cuore dei calanchi lucani, Francesco Lo Monaco dimostrò sin da piccolo di avere una vivissima intelligenza e una passione per le arti letterarie, padroneggiando già da adolescente le lingue classiche, il francese, la filosofia e il diritto, eccellendo anche negli studi di fisica e matematica e cimentandosi con idiomi complessi come l’ebraico.
Nel 1790, diciannovenne, si trasferisce nella capitale del Regno per proseguire gli studi accademici. Nel giro di tre anni consegue la prima laurea in medicina (1793) e, tre anni dopo, quella in giurisprudenza, studiando presso un altro grande lucano, Francesco Mario Pagano, nativo di Brienza (PZ).
Negli ambienti intellettuali e borghesi napoletani di quegli anni trovano terreno fertile gli ideali dell’illuminismo, che Francesco aveva già assorbito dal padre durante la giovinezza, dando vita ad un forte movimento giacobino cui egli aderisce, forse già partecipando alla fallita congiura del 1794. Certamente è protagonista attivo della Repubblica Partenopea del 1799, traducendo il Contratto Sociale di Jean-Jacque Rousseau e De’ Diritti e doveri del Cittadino di Mably, corredato da una sua brillante prefazione. Sfuggito miracolosamente all’assedio di Castel Sant’Elmo e alla feroce repressione borbonica, si rifugia prima in Francia e poi a Milano, dove si stabilisce. Da qui pubblica quella che è considerata la più vivida cronaca della vicenda del 1799, il Rapporto al cittadino Carnot (1800), ispirando il poemetto Il trionfo della libertà di un giovanissimo Alessandro Manzoni, che gli dedicherà anche un sonetto e che resterà suo amico fino alla morte.
Negli anni successivi fa da precettore a Giulio Foscolo, il fratello minore di Ugo, e inizia lo studio delle biografie dei grandi italiani, pubblicando le Vite degli eccellenti italiani (1802) e le Vite dei famosi capitani d’Italia (1804), maturando ed esprimendo la consapevolezza della assoluta necessità dell’unificazione d’Italia contro gli stranieri, in largo anticipo sugli anni del Risorgimento. Assume la cattedra di Storia e Geografia nell’Università di Pavia, dove si trasferisce. Negli anni successivi, inviso al regime napoleonico e a gran parte dell’ambiente culturale milanese e colpito dalla censura, specie nella sua ultima opera (Discorsi letterari e filosofici, 1809) si fa sempre più amareggiato e depresso. Si toglie la vita il 1° Settembre del 1810, gettandosi nel Ticino. Lascia una lettera al fratello, a cui scrive:
Se vissi sempre indipendente e glorioso, voglio morire indipendente e gloriosissimo: so che questo passo fatale vi amareggia immensamente; ma col fato non lice dar di cozzo. […] Arrivederci all’altra vita
Ciccio