L’8 ottobre 1867, quando nacque a Oppido Lucano Felicia Muscio Palumbo, certamente sua madre non immaginava affatto che, un giorno, sua figlia sarebbe stata uno dei simboli dell’emigrazione. Né che sarebbe stata ricordata con un monumento, a dorso di mulo, a oltre 11.000 chilometri di distanza, a Iquique, in Cile.
All’epoca era enorme il numero degli uomini e delle donne che emigravano dalla Basilicata per sfuggire alla fame. Solo negli ultimi venti anni del 1800 furono almeno 180.000 quelli che partirono dalle province di Potenza e Matera, spesso per non fare più ritorno.
Ma, questo, era solo sullo sfondo della vita di Felicia che, come le sue coetanee, s’innamorò e sposò Vittorio Sciaraffia Saluzzi, un compaesano. Nel frattempo, la miseria dilagava e la malaria s’inaspriva. Suo cognato Antonio si era già imbarcato per cercare fortuna in America del Sud e Felicia cominciava, forse, a sospettare che anche a lei e a suo marito sarebbe toccata quella stessa sorte. Con la nascita della piccola Rosa, nel 1893, la soluzione sembrò solo una: l’America.
Ma il viaggio era rischioso per una bambina così piccola e le prospettive di riuscita scarse. Così, Vittorio partì da solo.
Le notizie che giungevano a Oppido da oltre Oceano erano spesso tristi. E dolorose. Poi, però, cominciarono ad arrivare le lettere da Iquique, in Cile, e i toni cambiarono. Fino a quando, nel 1897, Felicia Muscio apprese che suo marito era diventato il padrone di una compagnia di carrozze. Era giunto il momento di partire.
Con solo una vaga idea del posto in cui avrebbe vissuto con suo marito, la donna salì con sua figlia su quello stesso carretto che aveva visto tante volte andar via, poi attraversò l’Atlantico. A Buenos Aires la città e il porto erano così grandi da farle girare la testa. Ma rassicurava Rosa, che a volte piangeva, ostentando una sicurezza fiera. Guardare altre persone smarrite, come lei, le infondeva un qualche coraggio.
Ai piedi della Cordigliera, dopo lunghi giorni di treno, la donna prese la bambina in braccio e salì su un mulo. In quegli spazi immensi e senza conoscere la lingua del mulattiere, il contatto e l’odore dell’animale la facevano sentire a casa, almeno un po’, anche se in alcuni tratti, quando la strada a strapiombo si restringeva e doveva bendare gli occhi della bestia, temeva di non sopravvivere.
Invece sopravvisse e diventò uno degli emblemi delle donne migranti nel mondo.