La stazione ferroviaria di Balvano nel 1944 e, sul fondo, la galleria del disastro (foto Wikimedia Commons)
Nella notte del 3 marzo 1944, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, oltre 600 persone muoiono nel più grande disastro ferroviario del nostro Paese, a Balvano, asfissiate dal monossido di carbonio.
Il treno 8017 viaggia sulla linea Salerno-Potenza Inferiore, forse diretto in Puglia. Alla sua partenza da Napoli è già colmo. In tantissimi vi sono saliti per raggiungere altri posti in cui barattare oggetti con pane o olio. Sono giorni di disperazione e il baratto, spesso, è l’unica possibilità di sopravvivenza.
Salerno, Battipaglia, Eboli: in tutte le stazioni, la gente si accalca per prendere posto, accomodandosi nelle ritirate, negli spazi di connessione tra i vagoni, sul tetto. Chi è costretto a scendere risale poco dopo, prima che il treno riprenda velocità. Nonostante vi siano due locomotive, si procede molto lentamente.
A Balvano, i passeggeri si stringono nelle giacche. C’è molta nebbia e, tra le montagne, le frequenti gallerie, i torrenti e le gole di quella parte della Basilicata, il freddo si è fatto pungente. I macchinisti, invece, a tratti tossiscono e si coprono il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato. Nelle strette e numerose gallerie, spesso con pendenze al limite della possibilità di percorrenza, infatti, si accumula pericolosamente monossido di carbonio. Il veleno prodotto dalla combustione del carbone è in grado di uccidere in pochissimi minuti.
Quando il treno riparte, alle ore 00.50, probabilmente ha a bordo oltre 600 persone. Altri ancora attendono di salirvi a bordo alla successiva stazione di Bella-Muro.
Il convoglio entra nella galleria Delle Armi: un tratto in salita, poco areato, lungo quasi due chilometri e già saturo di gas a causa del passaggio, appena qualche minuto prima, di un altro treno. La pendenza e il peso che gravano sulle locomotive inducono i macchinisti a imprimere maggiore potenza ma le esalazioni tossiche aumentarono e l’aria si fa irrespirabile.
A meno di 800 metri dall’ingresso, Espedito Salvatore tenta di fare marcia indietro. Il suo collega, Matteo Gigliano, nella seconda locomotiva, interpreta il movimento come una perdita di potenza e comincia a spingere in avanti. Nell’ultima carrozza, il frenatore – come da regolamento – attiva il freno manuale. Il convoglio rimane immobile mentre il monossido di carbonio satura la galleria. Salvatore perde i sensi, nei vagoni i passeggeri muoiono asfissiati.
I soccorsi arrivano solo intorno alle 5:00, quando, nella stazione di Balvano centinaia di corpi di donne, uomini e bambini giacciono ai lati dei binari.
Quando un urlo annuncia lo strazio dei parenti, più nessuno trattiene il pianto.
Negli anni, questa vicenda è stata la base di moltissime tesi e narrazioni (anche le più fantasiose come quelle che hanno fatto appello a un modo architettato dai nazisti per punire gli italiani…). Il disastro, poi, ha ispirato anche alcuni scrittori, musicisti e registi cinematografici come Luigi Comencini in “Tutti a casa” del 1960 o, nel 2013, Antonino Miele con “Volevo solo vivere, treno 8017 ultima fermata”.