È il 1° agosto 1929 quando il podestà di Potenza Emanuele Giocoli invia una lettera al prefetto in cui, con estrema amarezza, si lamenta delle difficoltà relative al trasferimento delle famiglie contadine dal centrale rione Addone, che versa in condizioni di fatiscenza e degrado, verso i villaggi rurali di nuova costruzione ubicati nelle aree periferiche della città.
Negli anni del ventennio fascista, infatti, nel capoluogo lucano – come in molte altri centri urbani – si attuano alcune decise modifiche all’assetto urbanistico che quasi mai trovano il consenso della popolazione.
Nelle intenzioni del regime, la città deve poter essere facilmente controllabile e deve diventare un luogo di differenziazione sociale, in cui i diversi ceti siano rigidamente separati. In questo modo, infatti, è più facile arginare la diffusione di opinioni contrarie a quelle promosse dal Partito fascista e che potrebbe essere facilitata da maggiori contatti tra persone appartenenti a estrazioni differenti.
I nuovi borghi rurali, intanto, si espandono intorno all’abitato. Spesso sono confortevoli e dotati di bagni, all’epoca del tutto assenti nei “sottani” del centro storico, le abitazioni sotto il livello della strada in cui vivono le famiglie più umili insieme ai propri animali in deprecabili condizioni igienico-sanitarie.
È proprio questa rimarchevole differenza a indispettire il podestà Emanuele Giocoli nella sua lettera al prefetto. L’uomo non riesce a spiegare la decisa riluttanza con cui i contadini rifiutano il trasferimento verso posti più sicuri e meno malsani rispetto a quelli di origine, né trova una giustificazione alla frequenza con cui fanno ritorno alle loro vecchie case.
Lo sforzo che si chiede ai contadini potentini, però, è in realtà gravoso perché impone il mutamento di abitudini e di stili di vita che si tramandano da generazioni e, spesso, comporta anche la frattura di consolidate relazioni sociali.
Si tratta di un prezzo molto alto da pagare che il regime preferisce non vedere.