Eustachio Chita, detto “Chitaridd” (ovvero “piccolo Chita”, per via della sua bassa statura) è ancora oggi una figura leggendaria della storia materana. Una personalità borderline, si direbbe oggi, probabilmente un criminale, sicuramente un emarginato che molti, in quell’epoca, definirono “brigante”, legandolo a un contesto politico al quale, di fatto, non è mai appartenuto. Eppure con la sua morte, un omicidio destinato a rimanere poco chiaro nella dinamica, si dichiara ufficialmente chiusa l’epoca del brigantaggio postunitario in Italia.
È il 26 aprile 1896, un giovane pastore sta portando a a pascolare delle pecore in zona Murgecchia, e nota in una grotta alcuni indumenti e un fucile. Al ragazzo viene subito in mente che possa trattarsi del nascondiglio di “Chitaridd”, ormai latitante dal 1888, quindi corre ad avvisare i padroni del gregge, che lo rassicurano dicendogli che sarebbero andati a controllare.
Raggiunta la grotta, Francesco Falcone e Francesco Nicoletti avviano una colluttazione con Chita nella quale quest’ultimo ha la peggio: resta ucciso da alcune coltellate e da un colpo d’ascia sulla fronte. Degli assassini si pensa che fossero addirittura due suoi complici che, temendo un tradimento, preferiscono ucciderlo.
In un successivo processo-farsa, svoltosi post-mortem, molti delle rapine e degli omicidi avvenuti in quegli anni Matera vengono attribuiti a “Chitaridd”.
Nel 1900 i resti di Chita vengono riesumati e spediti a Torino su richiesta di Cesare Lombroso, che li sottopose ad assurdi esami di fisiognomica, per dimostrare – secondo una tesi ben presto rivelatasi fallimentare – un legame tra dimensioni del cranio e comportamenti antisociali.
Da allora non hanno fatto più ritorno a Matera e se ne sono perse le tracce. A nulla, per il momento, sono valse le iniziative intraprese anche da alcuni discendenti di Chita, per restituire le sue spoglie alla terra d’origine.